Riserva Naturale Regionale
Monte Genzana Alto Gizio
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Tradizioni

Alla dissoluzione del mondo rurale, dei suoi riti e delle sue memorie, sembra opporsi Pettorano sul Gizio, ancora ricco di feste e tradizioni come pochi altri paesi d'Italia.
Così restano vivi i costumi delle donne, il re Carnevale, i ceri sui davanzali delle finestre nei giorni dei Morti, i rituali primaverili di ispirazione pagana, i culti agrari, la pietra di cui è fatto il borgo, l'aria frizzante di montagna, l'acqua del fiume Gizio che da sempre scorre accanto. Tutto resta come a testimoniare il ricordo di antiche usanze, espressioni di cultura ma anche di modelli organizzativi di vita sociale basata su regole di sapiente gestione del patrimonio culturale e naturale.

Capotempo
Il periodo detto di Capotempo (Capetiempe) cade tra la fine di ottobre e i primi di novembre. Esso costituiva il primo dei numerosi capodanni che nel mondo contadino costellavano la stagione invernale fino all'avvento della primavera. Un ciclo agricolo, con la vendemmia e la vinificazione si era chiuso e l'altro, con la semina, incominciava. Allora si riscuotevano i fitti agrari, si concimavano i terreni, si rinnovavano i contratti scaduti e si stipulavano i nuovi. Tra i taglialegna e carbonai si formavano le compagnie, che di lì a poco sarebbero andate a "ricacciare le ciocche" e a "fare i carboni" nelle parti romane (Pomezia, Nettuno, Terracina) o in regioni anche più lontane (Casertano, Capitanata, Calabria). Le feste tipiche del periodo erano, e in parte restano, quelle dei Morti, dei Santi e di San Martino.

San Martino
Le feste di Capotempo si concludevano l'11 novembre, con la festa di San Martino: la spillatura del vino nuovo, la consumazione in famiglia della pizza col mostocotto e la processione del santo in figura di fantoccio. Il punto culminante della festa era la processione di San Martino. Essa aveva il carattere della scampanacciata e ogni quartiere preparava il suo pupazzo di San Martino, imbottito di paglia e rivestito di stracci come uno spaventapasseri. La testa era formata da una zucca vuota, forata negli occhi, nel naso e nella bocca e illuminata all'interno da una candela. Sulla fronte, ai due lati, troneggiava una coppia formidabile di corna di capro, di toro, o di montone. Al crepuscolo della vigilia, folti gruppi di giovinastri uscivano dal loro quartiere col pupazzo portato a spalla e facevano il giro del paese agitando campanacci e tambureggiando su vecchie casseruole ammaccate, al grido di "evviva San Martino! Evviva le Corna!". Al termine la zucca veniva fatta a pezzi e il pupazzo dato alle fiamme.

Capodanno
La mezzanotte del 31 dicembre segna il discrimine tra la fine dell'anno vecchio e l'inizio del nuovo. A questo punto di sospensione cronologica sono legate due belle leggende pettoranesi. La prima riguarda l'acqua del Gizio, che "in punto a mezzanotte si arresta e diventa oro. Una donna che non sapeva tutto questo si trovò ad attingere proprio in quel momento e, invece dell'acqua, portò a casa una conca d'oro" (G. Finamore). La seconda leggenda è ispirata a Santa Margherita, patrona del paese e signora delle acque del Gizio, che fila il suo fuso d'oro nella grotta della Valle di Frevana. Si tramanda che la santa, a mezzanotte di Capodanno, prende le fattezze di una fanciulla incantevole e si rende visibile a chi abbia l'ardire di scalare la roccia e arrampicarsi fino alla grotta. Ma la cerimonia indubbiamente più suggestiva del Capodanno pettoranese, tuttora in auge, è la serenata augurale di questua della notte di San Silvestro. "Nella sera della vigilia, dall'Avemaria fino ad ora tarda, le donne, in brigatelle, vanno in giro nel paese, cantando auguri senza accompagnamento di strumenti musicali" (G. Finamore, 1890). La canzone, cantata con le bocche accostate al buco della serratura, si chiudeva con l'augurio di buon anno. La mattina dopo, le comari tornavano nelle case dove avevano lasciato la bona nova e ricevevano la strenna in beni di natura. Nel Capodanno del 1925 il canto anonimo popolare cominciò a cedere il passo alla serenata organizzata da un apposito concertino, che da allora avrebbe presentato ogni anno una canzone nuova. Tuttora, nella notte di San Silvestro, la gente continua ad uscire e a incontrarsi sulle strade per scambiarsi gli auguri, ascoltare e cantare insieme la nuova canzone.

Sagra della Polenta
L'origine del piatto tipico della tradizione culinaria di Pettorano sul Gizio è molto lontana ed è una lavorazione abbastanza "faticosa". La preparazione della polenta è basata su una tecnica legata a ritmi e riti particolari. La farina di granoturco, tempo fa macinata nei vari mulini che sorgevano lungo le rive del Gizio, viene lavorata per circa un'ora dalle "sapienti e forzute" braccia del polentaro, che ne indurisce l'impasto con il "cazzagno" (bastone di legno usato per girare la polenta). Una volta cotta, la polenta, viene ribaltata su un canovaccio di cotone o lino, tagliata a fette con un filo di rete e riposta nel caldo paiolo, pronta per essere gustata. Il condimento tipico è con salsicce, aglio, peperoncino, pecorino, olio (polenta rognosa o dei carbonai). Un altro intingolo è la polenta con strati di sugo, salsicce e pecorino. La polenta rappresentava il piatto unico, colazione, pranzo e cena, di quei pettoranesi che fino alla metà degli anni '50 erano dediti alla produzione di carbone. I carbonai, gente umile ed emarginata dalla vita sociale del paese, armati di roncole ed asce, passavano lunghi periodi lontano da casa e trovavano nella polenta, vagamente insaporita con qualche aringa, unico sostentamento. È questa una tradizione perpetrata negli anni che dona alla polenta il gusto di un pasto prezioso dal sapore antico. Ogni anno, durante le festività Natalizie, viene celebrata la "Sagra della Polenta" per non dimenticare tradizioni, sapori e riti appartenuti da millenni al paese di Pettorano.

Feste dei fuochi
Dopo l'Epifania, le feste dei fuochi chiudevano il periodo solstiziale e aprivano quello di Carnevale. I giorni solenni erano il 17 e il 20 gennaio, rispettivamente dedicati a Sant'Antonio Abate protettore del mondo rurale, e a San Sebastiano, guaritore delle polmoniti.
Il 16 gennaio, vigilia di Sant'Antonio, si cacciavano dalle stalle gli animali da fatica (asini, muli, cavalli e buoi) o di produzione (mucche, pecore e capre) e si portavano sul sagrato della chiesa del Santo. Quando la piazzetta antistante era colma come una fiera, il Parroco impartiva la benedizione e i contadini, subito dopo, baciavano i loro animai sulla fronte. La benedizione Sant'Antonio aveva il potere di preservare le bestie dalle malattie e dalle fatture delle streghe per tutto l'anno, di renderle feconde e di restituirle alla pienezza del loro vigore fisico dopo il lungo torpore della stagione invernale. Il giorno successivo si svolgeva la precessione che usciva dalla chiesa del Santo, faceva il giro del paese e rientrava nella Chiesa Madre, in piazza della Prece. Giovani e ragazzi alzavano cataste di legna, frasche e ginepri verdi su ogni slargo o piazzola posta lungo il tragitto della processione. La legna era offerta dalla gente del quartiere. Il fuoco veniva appiccato all'approssimarsi della processione, in modo che il falò raggiungesse il culmine al momento del passaggio della statua del Santo. Ogni rione cercava di realizzare il falò più alto e spettacolare e il parroco, al passaggio della statua, benediva i fuochi. A sera gli abitanti del rione si raccoglievano attorno al fuoco e cuocevano le patate alla brace. Gli anziani raccontavano storie di santi ed eroi del popolo tramandate per generazioni e proponevano i primi indovinelli di Carnevale. Sul tardi, si soffocavano le braci residue e si distribuivano i carboni benedetti alle famiglie del quartiere, a protezione delle case dai fulmini, dagli incendi e dalle disgrazie. La cenere, la mattina seguente, veniva sparsa nei campi. La sera del 19 gennaio, vigilia di San Sebastiano, veniva prelevata la statua del santo dalla chiesa a lui dedicata, fuori le mura, a poche centinaia di metri dalle sorgenti del Gizio, e trasferita con una piccola processione nella chiesa di Sant'Antonio. Il giorno dopo aveva luogo la processione solenne che ripeteva quella di Sant'Antonio, con la benedizione dei fuochi e la distribuzione dei carboni e delle ceneri.

Carnevale
Nel calendario liturgico il Carnevale va dall'Epifania alla Quaresima ma nelle tradizioni folcloristiche la data di inizio varia secondo le zone, tra Natale e Santo Stefano, Capodanno e l'Epifania, Sant'Antonio Abate e la Candelora (2 febbraio). A Pettorano, comincia il 17 gennaio con i fuochi di Sant'Antonio. Tra le tante follie di questo periodo di baldoria, nel medioevo e nei secoli successivi, era diffuso in tutta Europa il Testamento di Re Carnevale. Si è ritenuto a lungo che l'usanza fosse del tutto estinta. In particolare, a Pettorano sul Gizio, il vecchio testamento conservava "con mirabile fedeltà" il suo carattere di divertimento popolare e di pubblica denuncia dei peccati della collettività. Prima di essere letto davanti a tutti, il testamento veniva esaminato dall'autorità locale, che dopo aver censurato quanto ritenuto censurabile, lo approvava con una dichiarazione firmata in calce al manoscritto. Il testamento serbava dunque il carattere di atto pubblico. Esso consisteva, in sostanza, nella denuncia dei piccoli e grandi fatti di cronaca nera avvenuti tra un Carnevale e l'altro. Venivano così alla luce episodi di immoralità, di corruzione, di disonestà e talora soltanto di comica rozzezza e balordaggine, che nel loro insieme formavano il mucchio dei peccati accumulati duranti l'anno. Lo spettacolo iniziava nelle prime ore del pomeriggio di martedì grasso e durava fino a sera. La prima lettura si aveva nella Piazza principale, al centro del paese, e seguiva in tutte le altre piazze.

Mezza Quaresima
I rigori della Quaresima erano momentaneamente sospesi da un ritorno di fiamma del Carnevale nel giorno di Mezza Quaresima. Il digiuno e la penitenza venivano interrotti e si tornava ai divertimenti di Carnevale. I giochi più praticati erano l'altalena, la rottura delle pignate e quello detto casce 'n ganna (cacio in gola). Il re di Carnevale poteva comparire di nuovo in piazza, se c'era un testamento di risposta a quello nel giorno del martedì grasso. I ragazzi usavano schernire la "Vecchia" (figura simbolica della Quaresima e insieme dell'anno trascorso) con la filastrocca:
Seca, seca, mastre Céccia:
na saraca e na sucéccia,
nu cutture de fafe ammòlla
mastre Céccia 'n se satolla

(Sega, sega, Mastro Ciccia: / una saraca ed una salsiccia, / un paiolo di fave a mollo / Mastro Ciccia non si sazia).

La strofetta è un incitamento a Mastro Ciccia (figura del Carnevale e dell'abbondanza) a sventrare la "Vecchia" liberare e rimettere in circolazione le riserve alimentari da essa accumulate nascoste durante l'anno passato. A suo modo, era un augurio di Capodanno.

Lunedì dell'Angelo
All'alba del lunedì di Pasqua i pettoranesi, uomini e donne, ma soprattutto giovani, risalgono la Valle Frevana fino alla grotta di Santa Margherita e qui si spargono intorno, in liete comitive, a consumare arrosti, salumi, uova sode e buccellati, con abbondanti libagioni. Il rito della messa celebrata nella chiesetta e la processione di ritorno al paese con la statua a mezzo busto di Santa Margherita, detta "acquarola", restano tutto sommato marginali rispetto al cuore della festa.

Santa Margherita - 13 luglio
Santa Margherita vergine e martire, patrona del paese e signora del Gizio. La festa viene celebrata in onore della signora delle acque freschissime del fiume ("gelide" le definisce Ovidio Nasone nei suoi versi) che alimentano le fontanelle sparse nella parte meridionale della Valle Peligna e rendono fertili i campi della città di Sulmona che contribuiva ai festeggiamenti con una donazione della comunità municipale. Ma la festa, naturalmente, era dei pettoranesi, che la sentivano e continuano a sentirla ancora oggi come elemento essenziale della loro identità culturale di appartenenza. L'intensità di questo legame originario è espressa dal detto popolare riferito al giorno della festa: a Santa Margarita chi 'nn è revenute, o s'è muèrte o s'è perdute (a Santa Margherita chi non è tornato, o è morto o si è perso).

San Gerardo
Dal 9 al 12 agosto si svolgeva il pellegrinaggio di San Gerardo, in Val Comino. Una folta compagnia di uomini e donne, soprattutto giovani, sotto la guida di un veterano detto capo-compagnia, partiva alla volta della lontana Gallinaro, in provincia di Frosinone. I fedeli erano forniti di uno zaino e di un bastone di San Gerardo, segno caratteristico del santo pellegrino. Il pellegrinaggio culminava nella partecipazione alla processione del Santo per le vie di Gallinaro e, tra andata e ritorno, durava quattro giorni. All'andata, lungo la strada i pettoranesi si incontravano con i pellegrini provenienti da Scanno, pernottavano nello stesso luogo e facevano insieme il resto del cammino. Al ritorno, presso una fontana posta appena fuori l'abitato di Gallinaro, aveva luogo una sorta di rito dell'acqua "de santa Fléceta" consistente in una sorta di battesimo per adulti. Tra le persone legate da affetto o che avevano familiarizzato durante il viaggio si stringevano rapporti di comparatico e soprattutto di comaratico. Le donne che volevano "farsi a comare" (comari di San Gerardo) si bagnavano vicendevolmente il dorso della mano sinistra e pronunciavano la formula rituale "Padre, Figlio e Spirito Santo: salute, commà!"

Madonna del Carmine
La festa della Madonna del Carmine, alla fine di settembre, chiudeva l'estate ed apriva il tempo della transumanza, come l'analoga festa che si svolgeva a Scanno nello stesso periodo. Essa culminava a sera, con il ballo delle pupazze, figure femminili fatte di cartapesta colorata. Simboli di leggerezza e di dissipazione, non di rado le pupazze venivano chiamate col nome o col nomignolo di "donnine" proverbiali o di pubblica conoscenza. Ogni figura era animata da un portatore celato al suo interno, sotto le ampie gonne svolazzanti. E tutte insieme volteggiavano per il cielo della piazza, al suono della banda e tra la gente accalcata intorno. Alla fine qualcuno appiccava il fuoco ad una di esse. Allora il portatore della pupazza in fiamme imprimeva un ritmo più frenetico e convulso alla danza e cercava lo scontro con le altre pupazze. Queste, a loro volta, prendevano ad urtarsi e incendiarsi a vicenda, in preda ad un'improvvisa furia anti-distruttiva. Così il ballo si trasformava in un rogo purificatore generale, passando dall'esultanza di vivere al gusto amaro del disfacimento e della morte, dall'allegria alla cenere. Nel rito si incontrano significati antichissimi (purificazione attraverso il fuoco) e cristiani (condanna della lussuria) in tema con la celebrazione della Vergine, in linea col sincretismo religioso che caratterizza la storia della civiltà contadina.

Feste e Tradizioni
Feste e Tradizioni
(foto di: Archivio Riserva Monte Genzana Alto Gizio)
Sagra della Polenta
Sagra della Polenta
(foto di: Archivio Riserva Monte Genzana Alto Gizio)
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